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Intervista a Max Olitz

di Paolo Serristori

Ti senti di parlare della tua condizione?

Dipende da che cosa intendi per “la tua condizione”. Se ti riferisci alla mia condizione di scrittore, allora la risposta è: “sì, certo”. In ogni caso, non vedo di quale altra condizione potrei parlare...

D’accordo. Vuoi parlarci di Max Olitz scrittore?

Ho sempre scritto moltissimo, da quando ero alle elementari. Ricordo, doveva essere alle scuole medie, un compito in classe di lettere. Anzichè il solito titolo, la professoressa aveva scritto alla lavagna: "Le donne aspettavano ansiose sulla banchina del molo". Vedo ancora la facce perplesse dei miei compagni mentre la penna iniziava ad agitarsi nelle mie mani e le pagine si riempivano una dietro l’altra. Non ricordo molto altro, solo che quando suonò la campanella la professoressa ingiunse agli ultimi ritardatari di consegnare il tema. Il mio era ancora in alto mare, assieme ai suoi personaggi. Letteralmente. La scrittura è divenuta una necessità. I miei personaggi mi assillano, mi tormentano: devo liberarmene, come dai fluidi corporei, altrimenti mi avvelenano. Pierluigi Cappello scriveva: “con me le parole si sono sempre fatte avanti”. Nel mio caso le parole sono prepotenti, sfrontate e impertinenti. Più che farsi avanti, mi lasciano indietro. Escono a fiotti, spesso incontrollabili, e allagano i miei fogli.

Al giorno d’oggi si scrive troppo e si legge troppo poco. Proprio per questo, non ci sarebbe alcun bisogno di continuare a scrivere. Tutto è già stato detto, tutto è già stato scritto. Eppure... sono uno scrittore per necessità: scrivo per liberarmi delle parole.

 

Stai per pubblicare la tua prima raccolta, che si intitola “Chiuso dentro e altri racconti”. Di che cosa si tratta?

Anni fa ho partecipato, in forma piuttosto intensa, a laboratori di scrittura creativa su un soggetto dato. Questi workshop consistevano in lezioni teoriche di narrativa e includevano esercizi pratici e discussioni. Il soggetto veniva comunicato il primo giorno ed il racconto andava completato e consegnato al trainer entro la fine del laboratorio. Vista l’insistenza di alcuni miei amici, cui avevo fatto leggere qualcuno dei miei lavori, mi sono infine deciso a rendere pubblici quelli che ritengo essere i più significativi. La raccolta prende il nome da uno di questi, “Chiuso dentro”, appunto. Vi si narra la storia di Mauro Flocci, la cui vita subisce una dolorosa svolta a seguito di un ictus che lo riduce in una condizione definita sindrome locked in. Pur essendo perfettamente cosciente non è in grado di comunicare con l’esterno. È, a tutti gli effetti, chiuso dentro nel suo corpo. Il racconto si muove lungo le vicende del paziente, vissute anche attraverso gli occhi di Michela Ferri, una specializzanda cui, almeno inizialmente, viene affidato il caso. Il resto è da leggere. Posso solo aggiungere che non mi è ancora chiaro chi sia il protagonista, se il paziente o la giovane neurologa. La cosa è naturalmente voluta e cela una possibile ambiguità.

 

Cosa puoi dirci degli altri racconti che hai deciso di pubblicare e della scelta che hai operato?

Preferirei non parlarne e lasciare che sia il lettore a scoprirli. Se proprio devo menzionarne uno, BZ166 sia. Il racconto si ispira al disastro aereo di Verona. Il 13 dicembre del 1995 un Antonov diretto a Timisoara precipita meno di un minuto dopo il decollo. Muoiono 49 persone. Una storia in cui le negligenze umane e gli imperscrutabili capricci del caso si intrecciano in modo implacabile. Il cuore di BZ166 pulsa tutto nell’arco di poche ore. Tecnicamente ed emozionalmente difficile da sviluppare, la linea narrativa viene condotta attraverso Marta Sorgato, giovane vigile del fuoco e grande appassionata di aviazione, da poco in forza all’aeroporto Catullo. È stato faticoso e doloroso giungere alla conclusione, forse più che per Chiuso dentro. Anche se molto plausibile, non sono mai venuto in contatto diretto con un caso di sindrome locked in. Nel disastro di Verona, invece, ho perso un amico.

 

A che cosa stai lavorando in questo momento?

All’ultimo pezzo della raccolta. S’intitola Racconto autonarrante. Quando sarà completo pubblicherò il libro.

 

Puoi anticiparci qualcosa?

Posso dirti che si tratta, solo apparentemente, di un thriller. La protagonista, Rachele Frimi, viene assunta nelle Sante Libertine, una compagnia di problem solving in cui lavorano solo donne. Viene assegnata al gruppo che si occupa di sintesi narrativa: programmi che scrivono racconti e romanzi. In parallelo le viene affidato un caso che inizialmente trova noioso ma che poi assorbirà tutte le sue energie: determinare l’identità del corpo di una giovane donna sepolta assieme a Galileo Galilei a Santa Croce. Ciò la porterà a indagare su alcuni documenti che vennero occultati durante il processo dell’Inquisizione. Qualunque fosse il loro contenuto, questo doveva essere di importanza straordinaria e potenzialmente destinato a sconvolgere parte di quella controversa vicenda e le parti coinvolte. Tanto da non essere rivelato nemmeno quasi un secolo dopo, quando la salma dello scienziato venne traslata dalla sua collocazione provvisoria al sepolcro voluto e progettato dal suo allievo Viviani. Frimi si convince che la chiave si trovi proprio nel monumento funebre.

Nel racconto tento di stemperare gli aspetti storici con le vicende e i tratti caratteristici dei suoi personaggi, specialmente quelli della protagonista. E poi c'è la vicenda di Pio Paschini, moderno rigurgito di un caso ancora aperto.

E come va a finire?

Stai scherzando vero? Che ne so...

Che messaggio vuoi fare passare con i tuoi racconti? Che cosa resta al lettore? O meglio, che cosa vorresti che si portasse via dalle tue pagine?

Per quello che mi riguarda considero questi racconti come puri esercizi di scrittura. Forse in preparazione a un romanzo. Anche se devo dire che il racconto, forma letteraria in cui la vicenda si deve aprire e chiudere in uno spazio relativamente ristretto, è il genere in cui mi trovo più a mio agio. In altre parole, non scrivo per il lettore. In me la necessità di scrivere non sorge per accontentare questo o quel gusto. Le storie sgorgano piuttosto per un’urgenza quasi fisiologica. Se poi qualcuno coglie aspetti come l’impegno civile, o se leggendo prova delle emozioni, questo non accade certamente per caso. Ma altrettanto sicuramente non era quello il mio obiettivo. È semmai, per quanto probabilmente degno di nota, un accidente. Conosco uno scultore, quasi un sopravvissuto del rinascimento italiano. Di fronte alle sue opere la gente spesso gli chiede: “Maestro, qual’è il significato di questa scultura?” La sua risposta è: “Tu che cosa ci vedi?”

E io ti chiedo: tu, che cosa leggi nei miei racconti?

Qual’è il tuo rapporto con il mezzo digitale?

Ambiguo. Da un lato uso internet in continuazione, specie per le ricerche durante la fase preparatoria. Dall’altro, quando passo alla scrittura vera e propria, lo faccio usando solo carta e penna. So che è anacronistico e che richiede un doppio lavoro. Tuttavia, il mio rapporto con la carta è troppo stretto per interromperlo sulla sola base di argomenti di efficienza. Sono convinto che nella scrittura, così come in altre forme d’arte, l’efficienza non abbia alcuna importanza, specie durante l’atto creativo. È probabile che questo mio comportamento, che alcuni ritengono sia una mania legata in qualche modo a quelli che vengono definiti come i miei disturbi, affondi le sue radici nelle lunghe ore passate in biblioteca durante l’adolescenza, a respirare odore di carta ingiallita e polvere. Va anche detto che quando scrivo lo faccio quasi completamente in flusso, senza interruzioni e praticamente senza correzioni. Questo mi avvantaggia moltissimo, e rende le funzionalità dei word processor quasi inutili.

È vero che scrivi solo su carta invecchiata?

Sì, è vero. In genere, scrivo solo su carta vecchia, prodotta attorno alla metà degli anni ‘50 e trovata in una tipografia, che ha ormai cessato le sue attività. Siccome ne ho solo qualche scatolone, ho anche iniziato a invecchiare la carta per conto mio, lasciando dei fogli alla luce del sole per periodi prolungati, dopo averli posti dentro alcune teche di vetro che mi sono fatto costruire appositamente. Infine, uso carta esposta alla luce della luna per i progetti dei racconti, la descrizione dei loro personaggi, le bozze delle scene e via dicendo. È un processo laborioso, perchè la carta va tenuta al buio durante il giorno, in modo che non riceva la luce del sole e invecchi solo per effetto della luna.

Qual’è il momento migliore per scrivere?

Il tramonto, quando la luce radente evidenzia le scabrosità della carta antica, rivelandone la grana, e la penna vi incide un solco in cui le parole si adagiano e trovano finalmente riposo.

Nella tua pagina Facebook si legge “Penso di essere uno scrittore ma sono solo il personaggio di uno dei miei racconti”. Cosa vuoi dire?

Il mio psichiatra sostiene che io sia affetto da quello che viene indicato come disturbo dissociativo dell’identità. In effetti, vi sono dei momenti in cui non percepisco la differenza fra la mia vita e quella dei miei personaggi. Non è una bella sensazione, te lo garantisco.

 

In realtà, io sono il personaggio di uno dei miei racconti.

Paolo Serristori © - giugno 2018 

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