
Credo di essere uno scrittore ma sono solo il personaggio di uno dei miei racconti

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Chiuso dentro e altri racconti
Chiuso dentro
1
Quando ero bambino mio padre mi disse che se fossi stato capace di non pensare sarei riuscito a volare. E quanto ci avevo provato, invano.
«Papà, non riesco a pensare a niente. Perché per farlo devo pensare di non pensare… Tu ci riesci? C’è qualcuno che ci riesce?»
Mio padre mi guardava sorridendo, senza rispondere.
Allora non potevo essere cosciente di quanto, un giorno, il puro pensiero sarebbe stato importante nella mia esistenza. Per i bambini il significato della vita è tutto nelle azioni, i pensieri sono solo le scintille che le accendono. Nel letto, la sera, quando la pioggia picchiettava sul tetto di eternit del prefabbricato in cui vivevamo, pensavo moltissimo. Ma era solo l’anticipazione di ciò che avrei fatto il giorno dopo.
Sarei andato alla piccola biblioteca del mio paese, sotto la pioggia, con i libri da restituire nella borsa di plastica appesa al manico ricurvo dell’ombrello. Poi sarei entrato nella costruzione di legno, con l’odore di vernice che mi faceva sempre pizzicare la gola. Se il tempo si fosse messo al bello sarei andato da mio cugino Silvio. Avremmo lavorato assieme al nostro galeone. Avremmo preparato le vele con la macchina da cucire della zia usando la tela di un vecchio lenzuolo. Silvio era bravissimo. Io avrei legato le sartie ai pennoni. E poi il nonno Severo ci avrebbe insegnato a tornire i barili di legno che avremmo sistemato sul ponte. E c’erano anche i cannoni da preparare. Li avremmo costruiti usando quei tubicini di ottone che una volta tenevano fisso il tappeto alla scala di legno che saliva al piano di sopra. La settimana dopo, Stefano ed io avremmo ritentato quell’esperimento che non ci era ancora riuscito, facendo passare l’acqua bollente nella cenere. Quante cose volevamo fare…
Non riuscivo a non pensare. I pensieri erano irrimediabilmente orientati verso le azioni, diretti a convertire idee in movimenti e oggetti.
Crescendo avevo pensato sempre di più e agito sempre meno. Forse avevo pensato troppo e agito troppo poco. È questo il mio solo rimpianto, ora che il pensiero è l’unica possibilità che mi resta.
Avverto il mio corpo. Sento il caldo e il freddo, il solletico e il dolore. Dopo un tempo che non so misurare, in cui ho vissuto in un’assoluta confusione di ricordi e sensazioni, o forse solo ricordi di sensazioni, ho ripreso coscienza di me e penso, penso moltissimo e ho una percezione finissima del mio essere dentro i confini del corpo.
Ho già visto questa scena. In un libro, preso in prestito in quella biblioteca di legno, ricordo di aver letto di un uomo che si trovava in una condizione simile alla mia. Mia moglie mi ha detto che è vero. È nel Conte di Montecristo. Non riesco a ricordarmi come va a finire. Quando leggevo quei romanzi desideravo ardentemente esserne uno dei protagonisti. Avrei voluto essere Tremal Naik in una delle storie di Salgari. E invece sono diventato uno dei personaggi più sfigati di Dumas. Ho sorriso, almeno interiormente. Nessun sentimento può manifestarsi sul mio volto. È il contrario del mare, le cui profondità non sono turbate dalle tempeste, né rischiarate dal sole che splende sulle sue onde. Delle burrasche e dei giorni sereni del mio mondo nulla può salire alla superficie. Il mio volto è come un improbabile mare in perenne bonaccia, i cui abissi più insondabili sono sconvolti dalle correnti.
Va al di là della mia razionalità. Anche se non posso più tradurre i miei pensieri in azioni, ho una grande voglia di vivere. Anche in questa prigione.
Angela mi ha detto che alcuni pazienti nella mia condizione sono riusciti a scrivere dei libri dettandoli con i movimenti degli occhi e delle palpebre. Uno di questi è diventato famoso. Si chiama Philippe Vigand e il suo libro Putain de silence. Angela mi ha detto che è stato tradotto anche in italiano, ma gli hanno cambiato il titolo in Prigioniero del silenzio. Non credo sia questo che Philippe voleva dire. M’immagino piuttosto un “fottuto silenzio”. O forse “silenzio di merda”, seguito da quella specie di piccola pernacchia che i francesi usano per terminare certe frasi. Puttano silenzio. Ecco, questo mi piace di più.
Per ora ascolto musica, la radio e i libri che Angela e un gruppo di volontari mi leggono. Ma non voglio sentire Puttano silenzio. Non sono ancora pronto. Vedo il mondo offuscato e riflesso in uno specchietto sospeso sopra la mia testa.
Ora sono stanco. Voglio dormire.
BZ166
1
«Verona Torre, pronto al decollo, 166.»
«Bravo Zulu 166, Verona Torre, autorizzato al decollo pista 22.»
«Roger. Autorizzato al decollo 22, Bravo Zulu 166. Salut!»
L’Antonov 24 iniziò il rullaggio e accelerando lungo la pista si staccò pesantemente da terra.
«Bravo Zulu 166, in volo ai 54, potete passare sulla frequenza Garda 124 decimali 450, buona serata.”
Alla chiamata del controllore di volo non seguì alcuna risposta. Solo il crepitio della radio.
«Bravo Zulu 166, mi sentite?»
Silenzio.
«Rispondete!»
«Bravo Zulu 166, rispondete!!»
Il controllore cambiò frequenza.
«Garda Avvicinamento da Verona Torre. Hai il Bravo Zulu 166 sul tuo radar?»
Altri secondi di silenzio.
«Verona Torre da Garda Avvicinamento, qui non abbiamo nessun aereo!»
2
La dispensa del corso di strategie antincendio era aperta davanti a lei. “La tattica d’intervento deve essere sempre orientata al conseguimento di tre risultati fondamentali. Uno: il salvataggio delle persone. Due: il controllo dell’incendio. Tre: la protezione dei beni”. Aveva marcato la frase con l’evidenziatore e la ripeteva mentalmente. Quando era bambina aveva letto un racconto che narrava di un incidente accaduto a Francesco de Pinedo, divenuto famoso per le trasvolate in Australia e negli Stati Uniti. Nel 1927, durante il rifornimento sul lago Roosvelt, a causa di una sigaretta gettata da uno spettatore nell’acqua su cui galleggiava della benzina, il suo Savoia Marchetti prese fuoco. Il colpevole venne individuato poco dopo. De Pinedo volle parlargli, ma non si arrabbiò ed anzi, tentò di confortarlo, anche se quell’incidente aveva posto fine all’impresa, costringendolo a terra. La trasvolata venne ripresa e completata un mese dopo, ma il destino di de Pinedo era legato al fuoco. Nel 1933 volle compiere un’ultima impresa solitaria, da New York a Baghdad. Il Bellanca, sovraccarico di carburante, non riuscì a staccarsi da terra e, per evitare di investire un gruppo di spettatori, de Pinedo portò il velivolo a schiantarsi poco oltre la fine della pista di Long Island, dove si incendiò.
Il rombo di un decollo la distolse da quel ricordo. Aveva sempre avuto una grande passione per il volo e avrebbe voluto diventare aviatrice. Suo padre, ex pilota militare, da bambina la portava a tutte le manifestazioni aeree, tanto che il frastuono degli aviogetti le era divenuto familiare. Aveva conseguito il brevetto prima della patente e i suoi risparmi e il tempo libero andavano tutti in ore di volo. L’esame di ammissione all’accademia era andato male ed era tornata a casa delusa e scoraggiata, soprattutto dall’ambiente, rigido e ostile alle donne. Poi se n’era fatta una ragione, anche se non si era mai rassegnata a fare un lavoro qualsiasi. Il primo anno in cui il concorso era stato aperto alle donne aveva fatto domanda per entrare nei Vigili del Fuoco. Le cose erano andate meglio e superati i corsi e gli esami era stata assegnata a Verona. Lei non lo sapeva, e non lo avrebbe mai saputo, ma quello era stato un regalo di suo padre. Con un paio di telefonate aveva fatto girare le ruote della burocrazia e Marta, raggiante, si era ritrovata fra le mani quella lettera che la chiamava a prendere servizio al distaccamento aeroportuale.
Franco Sorgato sapeva che non avrebbe mai potuto dire la verità a sua figlia. Marta aveva sempre voluto fare tutto con le sole sue forze, dal giorno in cui era salita sulla quella sua prima biciclettina azzurra. Sfrecciava con un’asse di legno legata con uno spago al manubrio a mo’ di ala, una girandola di carta attaccata sul davanti a far la parte dell’elica ed una cartolina fissata alla forcella con una molletta da bucato, che battendo sui raggi faceva il rumore di un motore.
Le aveva regalato una giacca di pelle e un vecchio paio d’occhiali d’aviatore. Quanto lo faceva sorridere quel ricordo… gli metteva persino in pace la coscienza per quel segreto che non le avrebbe mai svelato.
Dalla finestra della sala riunioni vide uno dei due Perlini attraversare il piazzale aeromobili. Andò avanti sottolineando.
[...]
Il primo giorno di scuola
III
“Non ho la più pallida idea di come io sia capitato qui. Gli ultimi fatti che ricordo sono i ragazzi in cortile, la bidella che mi indica la classe e l’insegnante che mi manda a sedere vicino a questa ragazzina bionda dai capelli cortissimi. Eppure ho la percezione profonda di essere un uomo di quarant’anni. Anche se non sono sicuro di poter dire di ricordarlo, mi sono laureato, ho un lavoro, una moglie e dei figli. Guardo l’insegnante. Deve avere solo qualche anno più di me. Dalla voce direi che fuma. A parte questo è una donna decisamente interessante. Forse l’ho fissata troppo a lungo. Per nulla imbarazzata sostiene lo sguardo e dopo un breve silenzio mi parla con un tono che non ammette repliche, tanto da farmi abbassare gli occhi.
«Flocci, vuoi farmi la cortesia di seguire la lezione come gli altri?»
Nell’assurdità della situazione, noto che sulla cattedra non c’è il solito mucchio di cellulari spenti che tutti gli insegnanti sono costretti a raccogliere prima di iniziare le lezioni. Non trovo niente di meglio da fare che aprire lo zainetto ed estrarne un libro. È il Tantucci. È un libro vecchio di quasi trent’anni e non può essere ancora in uso nei licei. Ma uno sguardo al banco della mia vicina mi convince che invece è proprio così. Sulla prima pagina, in basso a destra, riconosco la calligrafia di mia madre, che era solita scrivere il mio nome e l’anno in cui il libro era stato acquistato. 1980.
Millenovecentottanta?
Avverto una specie di ronzio e la voce della prof si fa confusa, quasi soverchiata da un mormorio crescente, come se tutta la classe si fosse improvvisamente messa a chiacchierare. Mi guardo le mani. La sinistra non ha più la fede. Forse l’ho persa durante il trambusto in cortile. Le unghie sono rosicchiate e un po’ orlate di nero. Non ho più peli sul dorso delle falangi, le mani sono piccole e la pelle è fresca. La cicatrice che mi son fatto da piccolo sull’indice sinistro è ben visibile. Al polso ho un orologio Casio con il cinturino d’acciaio e il vetro un po’ scheggiato sul bordo. Mi tocco il mento. È liscio. Avverto solo una leggera peluria.
Metto la mano in una delle tasche dei jeans. Quelli che sento fra le dita della destra sembrerebbero alcuni chiodi e una vite. C’è anche un pezzetto di filo elettrico. Cerco di ragionare, anche se ho la sensazione che non ci sia molto da fare per tentare di comprendere una situazione in cui non v’è nulla di razionale. Non rammento quasi niente del latino; ho solo un vago ricordo di averlo studiato in un passato che credevo di aver ormai rimosso. Che devo aver rimosso, visto che non riesco a farmelo tornare in mente. Non posso essere uno studente di prima liceo; ma mi è altrettanto chiaro che questo non è ciò che di me viene percepito all’esterno. La mia vicina di banco continua a ignorarmi. Gli altri studenti seguono la lezione con attenzione. Se fossi davvero quello che sono convinto di essere… No, io sono ciò che penso di essere. Se avessi l’aspetto di quello che sono in realtà, l’insegnante mi avrebbe già cacciato fuori dall’aula. È ovvio che, almeno esteriormente, devo apparire diverso da quello che in realtà sono.
C’è un’unica spiegazione plausibile per quello che mi sta accadendo. Per quanto sia una conclusione sconvolgente, non vedo altre possibilità.
Cercando di non farmi notare dalla prof chiedo alla mia compagna di banco, sottovoce, da quanto tempo ci conosciamo.
«Da quando sei entrato in classe. Non ti ho mai visto prima.»
Mi ha risposto senza distogliere gli occhi dalla lavagna, su cui l’insegnante ha tracciato dei segni con il gesso. La tentazione è quella di alzare la mano e di chiedere se ci sia qualcuno in classe che mi conosce. Qualcuno che possa spiegarmi da dove vengo e che cosa sto facendo qui. Ma mi rendo conto che non posso fare una domanda simile.
Mi guardo intorno. Nessuno dei volti che vedo mi è familiare, nulla e nessuno che mi ricordi qualcosa di ciò che ero prima di entrare in questa classe. L’unico legame con il passato sono le cose che mi porto addosso. Rovisto nell’altra tasca. Sento un pezzetto di carta spiegazzata, lo apro sotto il banco. È il biglietto di un autobus: quindici settembre 1980.
Chiudo gli occhi. La mia vita è fra trent’anni.
[...]
L'ultimo giorno di scuola
Sale i pochi gradini grevemente, come avesse trent’anni in più. La barba di una settimana, un impermeabile con i polsini unti, i pantaloni dalla piega un tempo impeccabile ora sgualciti. Il nodo della cravatta mal fatto, un orlo della camicia un po’ fuori dai pantaloni. Una leggera pioggia gli bagna i capelli spettinati e troppo lunghi. Ad attenderlo all’ingresso il bidello con un camice blu. Gli apre la porta con un cenno di saluto molto rispettoso, come aveva fatto per gli ultimi dieci anni.
«Buon pomeriggio, signor preside.»
«Grazie, Leonardi» risponde guardandolo fuggevolmente negli occhi a facendo alcuni passi nell’atrio. Poi, come ripensandoci, si gira e aggiunge quasi sottovoce: «Grazie, Mario. Non chiamarmi più “signor preside”. Ora sono solo Bruno. Per te e per tutti gli altri.»
I passi suonano secchi sul marmo dell’ingresso e si perdono nel silenzio della scuola deserta. Leonardi lo segue a breve distanza, zoppicando, con un mazzo di chiavi in mano e di lì a poco apre una porta su cui c’è scritto “presidenza”. Al posto del suo nome c’è solo un cartoncino bianco in attesa.
Serramonti indugia, si gira verso Leonardi che ne regge lo sguardo per pochi secondi prima di abbassare gli occhi verso il pavimento. Esala un sospiro rassegnato, quasi un gemito, ed entra nell’ufficio in cui ha trascorso tante ore e in cui si sono accumulati ricordi e cose. Da quando la tempesta era andata addensandosi aveva iniziato a portare via libri e quadri. Il grande ficus l’aveva regalato alla moglie di Leonardi. La stanza era stata imbiancata. Sulla scrivania uno di quegli scatoloni da trasloco.
«Ho raccolto le sue cose rimaste qui, signor preside. Credo che c’è tutto. Se vuole dare un’occhiata… Resti pure quanto vuole. Quando ha finito, sono giù in portineria.»
Serramonti si avvicina alla scrivania strascicando leggermente i piedi. Scosta lentamente la sedia imbottita, vi si lascia cadere e guarda fuori dalla finestra che dà sul cortile interno della scuola. Quante volte si è soffermato a osservare i ragazzi durante la ricreazione. I più piccoli, quelli più scalmanati, che ancora giocavano rincorrendosi. I crocchi di ragazzi più grandi. Le coppie che si formavano e si scioglievano nel corso dei mesi. L’abbigliamento, che andava mutando con le stagioni e le mode. Gli insegnanti precari che cambiavano ogni anno e quelli che invece erano lì da prima che lui arrivasse e che vi rimarranno anche dopo che lui se ne sarà andato.
E questa scuola, queste aule. L’auditorium, i laboratori, la palestra. Quanto lavoro e quanto impegno. Dieci anni combattuti, dal primo all’ultimo giorno. Per renderla migliore, per restituire quello che aveva ricevuto, per onorare la memoria dei suoi vecchi insegnanti, per non tradirne l’eredità. E tutto per quei ragazzi.
Distoglie lo sguardo dal cortile, per poi rivolgerlo di nuovo a quel quadrato di porfido, con le sue aiuole ordinate, le panchine e gli aceri. Come quando si è fissata troppo a lungo un’immagine e si chiudono gli occhi, solo per un attimo, per poi tornare a metterla a fuoco con ancor maggiore intensità. Per coglierne particolari che ci erano sfuggiti, per essere sicuri che nulla ci sia sfuggito. Per essere certi che niente si sarebbe dimenticato. Avrebbe voluto scordare, Serramonti, quello che era successo. Riportare indietro il tempo a quando tutti guardavano a lui in attesa di una risposta, di una linea guida, di un incoraggiamento. A quando era sicuro di tutto, la strada sembrava tracciata, il lavoro da fare lungo e duro ma chiaro come un tratto di stilografica nera su un foglio bianco.
Una folata di vento scuote gli aceri che stormiscono. Come aveva amato quel fruscio nei primi giorni di pioggia alla fine di settembre, quando le foglie iniziavano a tingersi d’arancio. Erano passati vent’anni da quando, appena laureato, aveva fatto la sua prima supplenza all’Ippolito Nievo. Lo avevano assegnato al turno di sorveglianza durante la ricreazione. Guardando i ragazzi aveva deciso che quella sarebbe stata la sua strada, con quei giovani e con quelli che sarebbero seguiti. Precisamente in questa scuola, fra questi alberi. Leonardi gli aveva detto che erano stati piantati nei primi anni Settanta, durante una delle “feste degli alberi”.
«Doveva essere il ventun novembre del ‘72, o del ‘73…»
Sentiva ancora la voce di Leonardi. Se le ricordava anche lui quelle feste. Ero bambino e cantavamo una canzone che faceva: “come alberi piantati lungo i fiumi, noi aspettiamo la nostra primavera; come alberi piantati lungo i fiumi, daremo i nostri frutti”.
E i frutti c’erano stati. Sudati e sofferti ma turgidi e abbondanti. E la qualità del raccolto si era mantenuta negli anni, con risultati sempre brillanti. La stima dei colleghi e dei superiori era andata crescendo. Soprattutto quella degli studenti, che lo consideravano un mito. Una volta aveva fatto una supplenza in una classe che non aveva mai avuto prima. Più tardi, quella mattina, di fronte a tutti gli altri insegnanti, una collega gli aveva chiesto: «Ma che cosa gli fai? Quando sono entrata in classe sulla lavagna c’era scritto “Serramonti forever”…»
Negli anni si era reso conto di avere un vero talento, di saperci fare, di essere un vero maestro, nel senso più profondo della parola. Alcuni ragazzi lo salutavano con un “salve magister” all’inizio delle lezioni. “Il carisma non s’impara” gli aveva detto una volta la sua insegnante di greco. E non c’era solo quello. Un anno era capitato al Nievo un professore di scienze che trasudava tronfiaggine e sufficienza. Senza nemmeno salutarlo gli si era rivolto con un tono supponente.
«Dov’è che si esercita la funzione docente in questo istituto?»
Gli fece un tale discorso, di fronte al preside e ai suoi colleghi, che non ci fu alcuna replica. Non perse la calma, non si arrabbiò. Ma gli argomenti, la sottile ironia, la passione sincera e credibile unita a una dialettica straordinaria e trasparente fecero impallidire il professore di scienze. Che chiese il trasferimento il giorno dopo.
Ad anni di distanza dalla maturità, molti ex studenti gli chiedevano l’amicizia su Facebook e venivano a sentire le sue conferenze pubbliche sulla letteratura moderna. E poi c’era stato il concorso a preside, che aveva vinto al primo tentativo. Per diversi anni aveva diretto un istituto professionale, ma alla fine era riuscito a tornare nella sua scuola. In quell’ufficio, da dove si vedevano le foglie degli aceri del ’73 cambiare colore, cadere sul porfido umido e volare via nelle folate di novembre, per poi riapparire come gemme in marzo e garrire rigogliose al vento di maggio. Era stato un lavoro di squadra. Aveva trovato degli ottimi collaboratori e molti degli insegnanti facevano il proprio lavoro con passione, considerandolo ancora una missione. Negli anni la scuola si era fatta un nome ed era riuscito ad ottenere dei fondi pubblici e delle donazioni private per rinnovare l’edificio. Molte opere d’arte regalate da scultori e pittori di sua conoscenza avevano fatto la loro comparsa lungo i corridoi, nella sala insegnanti, nelle aule e nell’auditorium. Spesso, il sabato sera, vi si tenevano dei concerti commentati da un critico musicale, suo ex compagno di scuola.
Il liceo offriva molte attività anche al pomeriggio, spesso gestite dagli studenti degli ultimi anni e sostenute dagli insegnanti. Erano nati così il coro e la piccola orchestra, il corso di narrativa, il laboratorio di teatro sperimentale, il gruppo di scienze naturali e il parlamento degli studenti. E poi c’erano i pomeriggi di filosofia, le recensioni di nuovi libri presentate dagli studenti e RadioNievski. Anche se lui ne avrebbe fatto volentieri a meno, il liceo e la sua fama s’identificavano con il suo preside. C’era stato anche un giornalista sbadato che aveva scritto di un bellissimo spettacolo teatrale andato in scena al Liceo Serramonti.
“Possiamo pensare di educare i giovani al bello solo rendendolo parte della loro vita di ogni giorno. Possiamo orientarli verso la bellezza solo convincendoli che questa è già dentro di loro. Possiamo renderli responsabili soltanto dimostrando che ci sentiamo responsabili del loro avvenire”. Lo scriveva ogni anno nella lettera che mandava a tutti gli insegnanti, di ruolo e precari, convocandoli al primo collegio docenti. Pretendeva moltissimo dai suoi colleghi, ma non di più di quanto si aspettasse da sé stesso. I programmi dei vari corsi venivano discussi dall’intero collegio e le direttive del ministero esaminate e rivoltate come calzini.
«Quelli che le stilano spesso non hanno mai insegnato, non hanno mai messo piede in una scuola di provincia. Decidono le riforme dopo una nottata di discussioni al ministero. Non possiamo delegare una responsabilità così grave a un’accozzaglia d’incompetenti che cambiano a ogni elezione. Di tanto in tanto c’è del buono ma sarebbe sbagliato assumere che questo sia invariabilmente vero. Applicate sempre il pensiero critico.»
Sulla carta un preside non ha nessun potere. Nemmeno lui. Eppure, ogni anno veniva investito di quel potere dagli insegnanti. Dagli studenti stessi. Non erano mancate le controversie e gli scontri. Alcuni anche amari, come quello con Katia Lessi, giovanissima e brillante insegnante di filosofia, con la quale era andato tutto storto dal primo giorno. Ma anche questo rientrava nell’ordine delle cose.
Scriveva regolarmente articoli di didattica moderna sulle riviste specializzate. Uno di questi gli era valsa una certa notorietà nell’ambiente, tanto che era stato chiamato a far parte di una commissione ministeriale per l’ennesima proposta di riforma scolastica. Era andato a Roma e aveva presentato le sue idee. Era tornato a casa deluso ma ancor più convinto della sua linea e ancor più determinato a perseguirla.
L’odore della pittura fresca alle pareti è il primo contatto con la realtà delle cose quando i pensieri abbandonano la corrente dei ricordi, per fermarsi sulla riva, solo per un attimo. Tanto erano stati entusiasmanti quegli anni quanto vuoti e insignificanti sono ora questi giorni.
[...]
Raccontrappunto
[...]
Le luci di sala si abbassarono gradualmente e dalla porta sulla destra del palco uscirono uno dopo l’altro i quattro musicisti, accompagnati da un grande applauso che attraversò il pubblico come un’onda e che diventò ancor più caloroso quando questi rimasero brevemente in piedi prima di sedersi, ciascuno di fronte al proprio leggio.
Seguirono attimi che per Andrea furono intensissimi, nel silenzio rotto solamente dai lievi rumori prodotti dal rituale che precede l’inizio di un concerto. Erano così vicini che percepiva le loro emozioni in modo quasi doloroso: quella in atto era una condivisione profonda, viscerale, nonostante le apparenze avrebbero potuto far pensare che ciascuno di loro fosse solo con sé stesso, nell’atto di divenire tutt’uno con il proprio strumento, nella metamorfosi di quella fusione che li rende indistinguibili. Per un po’, ma solo per poco, Andrea avvertì tutto il peso dell’essere interpreti di un’opera come l’Arte della Fuga, del carico che il farsi tramite fra il genio e il mondo reale reca con sé, nell’essere portatori di un messaggio astratto e quasi esoterico, perché questo si rivesta di suono e riviva nell’universo fisico. E il compito è sovrumano, proprio perché pecca di una presunzione smisurata. Ma solo per poco… Lo sguardo che Borciani rivolse ai suoi compagni rivelava una realtà diversa, non meno colma di sofferenza, non meno piena di passione.
A un suo segno quasi impercettibile, la violinista respirò profondamente preparandosi all’arcata. Andrea sentì l’aria vibrare prima ancora che l’arco toccasse le corde. Le dodici note del tema riempirono la sala, come un’affermazione perentoria e severa, seguita dalle risposte nelle altre tre voci. Prima quella del violino, con l’inconfondibile impronta del maestro, seguita da quella nel registro più grave del violoncello e completata dall’ingresso della viola. Dopo aver fatto il proprio annuncio le voci si ritiravano leggermente, una dopo l’altra, togliendosi dalla luce del primo piano per far risaltare meglio i contorni del soggetto nella sua rinnovata comparsa.
Le differenze di timbro e la loro diversa posizione nello spazio rendevano la percezione dell’identità delle singole voci più semplice, e più facile perdersi dietro una di esse, seguendola nel labirinto che assieme alle altre andava tessendo.
Non sapeva quando avesse chiuso gli occhi. Nella semi oscurità al di qua delle palpebre gli parve che la musica gettasse una fioca luce innanzi a sé, e si sentiva come se la stesse seguendo lungo una via altrimenti buia e sospesa su baratri insondabili. I contrappunti seguivano uno all’altro quasi senza soluzione. Solo durante il quarto, al punto dove la stupenda progressione crescente al soprano culmina su quell’inattesa cadenza riacquistò la coscienza del luogo e del tempo. Si girò lentamente a osservare il suo maestro: Perosa aveva gli occhi chiusi, le mani posate sul grembo, dove teneva la partitura che non aveva aperto. Lacrime gli scorrevano lungo le gote.
Quante volte aveva considerato quei passaggi? Sulla carta sembravano di una semplicità sconcertante, ma il loro effetto… l’effetto sfuggiva alla comprensione, trascendeva l’immaginabile. Dal dialogo degli archi emergeva il dolore più profondo e al tempo stesso una luce vivida, la manifestazione più pura della speranza che la vita valga la pena di esser vissuta. L’uomo deve guardare dentro di sé, da fuori non gli verrà nulla.
[...]
Autodistruzione
1
La figura del sottufficiale della Force Publique si stagliava beffarda sotto il porticato ricoperto di foglie di palma nell’aria afosa del tardo pomeriggio equatoriale. Il capo del villaggio, inginocchiato nella polvere, tenne gli occhi fissi per terra. Sapeva fin troppo bene qual era il prezzo che avrebbero pagato. A un cenno del militare, due delle sue guardie si allontanarono. Tornarono poco dopo, trascinando per le braccia il corpo nudo e senza vita di una bambina che gettarono davanti a lui, costringendolo a guardarla. Era coperta di sangue e orribilmente mutilata. Le sue urla disperate avevano sferzato l’aria fra le capanne del villaggio mentre gli uomini di De Breuck la violentavano e la torturavano. Chino a terra, aveva riconosciuto la voce della piccola Boala e le sue lacrime erano cadute nella polvere, i singhiozzi dolorosamente soffocati. Flebili lamenti e poi il silenzio.
Non poteva fare nulla per la sua gente. Chiunque si fosse ribellato sarebbe stato ucciso. Altri morti, altro sangue. Sentiva il petto squarciarsi dal dolore, dalla rabbia contro quegli uomini, fratelli, africani come lui ma mercenari di altre nazioni, che i belgi avevano messe una contro l’altra, perché si odiassero nel modo più feroce e non si unissero per combattere il loro vero nemico.
Riaprì gli occhi sul quel piccolo corpo straziato. Era paralizzato dal terrore, dall’impotenza, dall’orrore per tutta quella violenza.
De Breuck fece un segno e uno dei suoi mercenari estrasse il machete e con due colpi tagliò una mano e un piede, staccandoli dal cadavere della bambina. Uno spruzzo di sangue ancora caldo gli bagnò il volto, mischiandosi con le sue lacrime.
«Raccoglili!»
La voce del sottufficiale lo colpì come una frustata. Con le mani tremanti prese le due piccole membra. La testa gli girava e il cuore sembrava volergli esplodere nel petto.
«Portali a suo padre. Sono sicuro che la prossima volta raggiungerete la quota.»
Rimase immobile, mentre trascinavano via il corpo della piccola Boala. Sapeva che lo avrebbero mangiato e che a Nsala e alla sua famiglia della loro figlia non sarebbe rimasto altro che quel piedino e quella manina da seppellire sotto il pavimento di terra battuta della capanna.
De Breuck e i suoi uomini se ne andarono.
Perché non si era ribellato? Non sarebbe servito a nulla, ma almeno lo avrebbero ucciso e non avrebbe più dovuto sopportare queste cose terribili e vedere il suo popolo umiliato e soggiogato dal terrore. Ma anche se fosse morto le violenze non si sarebbero fermate.
Si alzò barcollando e si diresse verso il centro del villaggio. Nsala stava venendo verso di lui, seguito da sua moglie Mbiya. I soldati li avevano tenuti sotto tiro mentre portavano via la loro piccola. Avevano ucciso un’anziana che li aveva maledetti e chiamati porci.
Si fermarono a pochi metri da lui. Mbiya si accasciò a terra piangendo in silenzio. Nsala si avvicinò e guardò ciò che era rimasto della sua bambina, incapace di dire una parola. Mbiya emise un rantolo che lo fece rabbrividire, più simile a quello di un animale che a quello di un essere umano.
Chiuse il manoscritto. Gli veniva da vomitare. Si alzò e aprì la finestra per prendere un po’ d’aria. L’antagonista aveva fatto deviare la storia in una direzione del tutto inattesa. Promettente e ricca di possibili sviluppi ma troppo lontana da quello che aveva in mente. E troppo netta era la differenza fra i loro stili. E poi, non vi si riconosceva. No. Stava mentendo a sé stesso. Non era quella la radice più profonda del disagio che si era insinuato nella sua mente. Le sue storie erano sempre frutto della sua fantasia, rigorosamente inventate. Faceva sempre grande attenzione a non raccontare fatti realmente accaduti. Verosimili sempre, veri mai. In questa storia invece… la disumanità del genere umano emergeva in tutta la sua più brutale essenza. Ogni riga, ogni parola sembrava gridare l’iniquità della sua vera natura. La storia della civiltà è disseminata di violenze che solo un essere dotato di profonda autocoscienza può riuscire a concepire e a mettere in atto, deliberate espressioni del male nelle sue più inimmaginabili forme. E la linea tracciata dall’antagonista portava ad un’unica possibile conclusione: la macchia è troppo estesa e non può essere curata da alcuna azione. Nessun comportamento nobile, nessuna benevolenza, né i più disinteressati atti d’amore potranno mai redimere l’umanità dalle atrocità compiute. Tanto più indegne di perdono quanto più volte ripetute, dimentiche delle memorie e degli errori e degli orrori. Erano le piccole membra di Boala a dirlo, senza bisogno di altre parole. Il silenzio attonito di Nsala davanti ai poveri resti della figlia. Nessuna lacrima avrebbe mai potuto lavare via dalla superficie della terra quello che l’animale uomo aveva compiuto.
Milioni di morti in un’Africa sfruttata e umiliata anche da noi italiani, brava gente, per portargli un altro duce e un altro re e per toglierli anche quel poco che avevano. Gli veniva il mal di stomaco quando sentiva la gente lamentarsi dell’invasione dei migranti. Quale parola avremmo usato se fossimo stati invasi non da poveracci in cerca di una vita migliore, ma da veri eserciti, crudeli e capaci di crimini che non si possono nemmeno sentire? La nostra ricchezza e il nostro benessere poggiano su un pavimento lucido, sotto il quale si celano i cadaveri di quelli più deboli.
Sapeva dove avrebbe condotto quella storia, non rimaneva molto più da decidere. L’umanità aveva avuto la sua possibilità e non ce ne sarebbe stata un’altra. Era meglio che un’estinzione di massa cancellasse per sempre ogni traccia della civiltà umana e che altre specie, meno intelligenti, e forse per questo meno malvage, avessero la loro chance. O, forse, che la vita sulla terra scomparisse del tutto e si riaccendesse invece accanto a qualche altra stella.
Non si sentiva di affrontare quella storia, non in quel momento almeno. Tornò alla scrivania, prese qualche appunto e aprì il secondo manoscritto.
18 aprile – Al mattino mi telefona Morena e mi dice che è morto il papà di Anna e che al pomeriggio ci sarebbe stato il funerale. Se volevo andarci era alle tre e mezza. Ho passato la mattina in agitazione. Alle tre sono partito in bici. Morena si era sbagliata, perché quando sono entrato in chiesa era già iniziato. Ho cercato tra la gente per vedere se c’era qualcuno che conoscevo. Ho visto due ragazze della prima D, Roberta e Sabrina, e sono andato a sedermi vicino a loro. Non sono riuscito a vedere Anna, sentivo solo i suoi singhiozzi. Quando il funerale è finito è uscita la bara. Anna era là e piangeva disperata. Un giovane l’ha presa in braccio, forse era suo fratello. Non c’era nessuno di tutti quei ragazzi che le stanno sempre dietro.
Sabrina e Roberta mi hanno salutato e sono andate via, io invece ho seguito la gente fino in cimitero. Pioveva. Quando la bara è scesa sottoterra Anna ha gridato il nome di suo papà. Sono rimasto lontano, non ho avuto il coraggio di andare a salutarla. Non so nemmeno se mi ha visto. Mi ha fatto tanta pena. Sono tornato a casa da solo, in bici, con le lacrime che si confondevano con la pioggia. Ora sono qui a confidarmi con questa carta. Perché non sono corso ad abbracciarla? Perché questa paura? La amo ancora, come quando eravamo assieme. Di più. Mi ha fatto tanta tristezza, ma anche tanta tenerezza.
22 Aprile – Oggi ne ho parlato con Monica, quella ragazza di quarta. Mi ha visto a ricreazione. Cosa c’è? mi ha chiesto. Ti vedo sempre così sorridente. Sei triste? È molto dolce. Anche se è più grande di me, alla festa di carnevale mi ha chiesto se volevo ballare con lei. Ha sempre un buon profumo. Non sono riuscito a guardarla, ma le ho raccontato di Anna. Mi ha ascoltato in silenzio e poi mi ha abbracciato. L’ho sentita come una sorella più grande. Mi ha detto che posso parlarle ogni volta che voglio, lei mi ascolterà. Forse un giorno riuscirò a chiederle perché sono così timido con le ragazze, perché ho sempre tanta paura…
14 Maggio – Anna è sempre nei miei pensieri e lo ho scritto molte volte, ma non mi ha mai risposto. Stefano mi ha detto che l’ha vista alla festa di Valentina. Era con un ragazzo che non conosceva. Spero sia felice, anche se la amo ancora e tutti i miei sogni sono sempre pieni di lei.
3 Giugno – Oggi Monica mi ha chiesto come va. Le ho detto che amo ancora Anna, ma che non l’ho più vista e che non ha mai risposto alle mie lettere. Piangi? Sì, spesso. Mi ha accarezzato una guancia. Siamo rimasti un po’ in silenzio. Posso chiederti una cosa? le ho detto con il cuore che mi batteva forte. Cosa c’è che non va in me? Sembrava stupita, come se non capisse. Cosa cercano le ragazze in un ragazzo? Io non guardo mai il loro corpo. Solo gli occhi. Le ascolto, le sento dentro. L’amore mi sconvolge ma poi non riesco a dirlo. Avrei voluto stringere Anna, tenerla per mano. È stata lei a baciarmi per prima e io ero agitato e confuso, travolto dalla felicità, tanta da non riuscire nemmeno a dirlo, neanche a lei, soprattutto a lei.
Non so se le ho detto proprio così, ma lei deve aver capito. Mi ha spettinato i capelli. Non c’è niente di sbagliato in te. Anzi. Quello che possiedi è raro. I ragazzi che ho avuto volevano solo saltarmi addosso. Era diventata triste, ma non ho avuto il coraggio di chiederle perché. Le ho preso la mano e l’ho stretta nella mia.
9 Luglio – Oggi ho conosciuto Miranda, la ragazza dagli occhi che cambiano colore. Di sera ci siamo ritrovati in spiaggia e siamo andati a fare una passeggiata. C’erano anche lei e Paola. Reddy mi ha sfidato e braccio di ferro sulle assi di una barca vicino alla riva. Miranda si è avvicinata e ha sollevato la manica della mia maglietta per scoprire il braccio. Anche se poi ho perso.
Al pomeriggio mi aveva chiesto che cosa stessi scrivendo su quel quaderno. Un libro, le ho risposto. Voglio essere la prima a leggerlo.
11 Luglio – Ieri sera, verso le sei Reddy e Stefano sono andati via ed io sono rimasto solo in spiaggia a guardare Miranda. Anche lei mi guardava molto spesso. Dopo un po’ si è alzata, ha raccolto le sue cose e si è incamminata verso casa. Lei, forse pensando che la stessi osservando, quando era già un po’ lontana si è girata verso di me e mi ha guardato dritto negli occhi; splendevano di un azzurro straordinario. Ma l’impressione che mi ha fatto era di tristezza. E questo mi ha legato a lei ancora di più. Oggi sono rimasto tutto il giorno vicino a lei. L’ho accarezzata, l’ho guardata cento e cento volte negli occhi. Lei cercava la mia pelle e io mi sentivo così felice, come non lo ero da tanto tempo. Siamo andati assieme a Stefano e Paola sulla laguna. Loro si baciavano mentre io e lei ci tenevamo solo per mano; mi sentivo in pericolo, come con Anna! Abbiamo camminato a lungo abbracciati; lei mi stringeva forte e mi sentivo uomo. Poi la pioggia. Continuavamo a camminare accarezzandoci. Fino a un portico, dove mi ha messo le braccia al collo e io l’ho stretta a me. In quel momento ero felice e le volevo bene. Le accarezzavo i capelli e sentivo la sua guancia sulla mia. Siamo rimasti così a lungo. Sottovoce cantava con grande dolcezza “domani già ti lascio”. Sentivo le lacrime in gola. Ho voluto accompagnarla fino a casa. Sotto il palazzo dove abitava si fermò per salutarmi. Mi baciò sulle labbra e mi disse di scriverle. Poi si gettò fra le mie braccia e mi strinse a lungo. Mi baciò di nuovo e poi ancora, mi riabbracciò e mi salutò. Poi se ne andò. Ero triste e mi voltai a guardarla, forse per l’ultima volta nella mia vita.
Il suo volto e la sua espressione quando mi ha salutato mi restano sempre innanzi e al solo pensarci amare lacrime solcano le mie guance. Sono così triste che non ho voglia di niente. Mare, mare, mare voglio annegare, portami lontano a naufragare.
20 Luglio –Vorrei dirti tante parole, ma preferirei che fossero messaggio gli occhi miei nei tuoi. Per te, che penso, che voglio, che desidero, che sogno, che canto, che amo. Per te. E quante le notti di mare che son stata con gli occhi alle stelle a pensarti. È bellissimo sognare ad occhi aperti e per ora nel mio futuro ci sei solo tu.
5 Agosto – Mi ha scritto Miranda:
Te ne andrai dai miei pensieri
Chiudendo dolcemente la porta
Per non svegliare la mia mente
Illusa che ancora mi sei accanto.
Te ne andrai svanendo piano
Come un gabbiano che s’immerge nel sole
All’orizzonte non resterà più nulla
Soltanto un bagliore di luce nel buio della mia vita.
12 Agosto – La amo moltissimo. Non mi sembra nemmeno possibile tutto questo stia accadendo a me.
3 Settembre – Se leggendo queste parole tu capirai di non provare niente per me, sappi che io ti perdono, anche se il vento mi porterà il tuo nome, il sole mi ricorderà il tuo sorriso e il mare il nostro perduto amore. Se queste sono le ultime parole che ti scrivo, sappi che ti porti via una parte di me come il sole tramontando si porta via la luce, e che in me lasci un segno, come la pioggia che cade sopra la neve. Addio amore mio, piangere non serve, ma ridere non sarà più la stessa cosa…
Quante volte ho pensato alle parole da dirti: parole d’amore rimaste pensieri, gridati con gli occhi, pianti col cuore. Forse tu sai quello che io non so spiegarti, quello che io non so donarti, ogni volta aspettando un momento migliore che non so trovare…
Ancora una volta io resterò sola: me è questo il mio modo d’amare.
Non dimenticarmi del tutto, ma scorda…
Era profondamente turbato. Innamorarsi per lui era sempre stato un’esperienza sconvolgente, quasi un’ossessione il bisogno di amare e di sentirsi amato da una donna, senza avere la maturità per capire che cosa fosse veramente l’amore e quali fossero le sue necessità. Idealizzato all’estremo, quasi del tutto distaccato dall’aspetto fisico, tanto da separarlo dall’oggetto dell’amore stesso.
Non ricordo la forma del suo seno né la curva dei suoi fianchi. Quel ragazzo sono io. Questo è il mio diario.
Era scosso ma non riusciva a smettere di leggere. L’immagine che aveva di sé stesso gli appariva ora completamente diversa da quella reale. Aveva sempre pensato al suo passato come a qualcosa di brillante, diverso dalla norma, migliore della media. Quelle pagine lo mettevano di fronte a una verità molto diversa, che in tutti quegli anni era riuscito a seppellire dentro di sé. Fino a quella mattina. Quelli che gli erano parsi pensieri profondi ora gli sembravano banali e spesso scontati. Le esperienze che aveva considerato come straordinarie, di straordinario non avevano proprio niente. A rivedersi così si faceva pena: la profondità delle sue riflessioni, la convinzione di non essere un uomo superficiale, la sua stessa personalità appoggiavano sul nulla. E anche se questo era già abbastanza per farlo stare male, non era ancora niente rispetto alla consapevolezza che là fuori ci fosse qualcuno che lo sapeva.
Non poteva essere una coincidenza. Aveva distrutto i suoi diari molti anni prima, ma certe frasi gli erano rimaste in mente.
[...]
